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Molte volte si leggono o si sentono notizie di fatti accaduti con il sospetto che non ce la raccontano tutta. Ma credo di non dire nulla di nuovo!
Io vorrei mettere un piccolo tassello, vissuto in prima persona, unitamente a una ventina di altri Partecipanti a quel tour, che mi hanno fornito un mio personale giudizio sul ruolo dei francesi sulla fine di Gheddafi.
Vi proponiamo il racconto della piccola Viola che ha preparato come tema il diario di viaggio della vacanza passata in Marocco con Desartica.
Intervista a Andrea Trivellato, presidente di Amibike, partner Desartica per i viaggi in bicicletta nel mondo.
Daniele Bonifacio ci racconta del nostro viaggio sensoriale ad Amsterdam con le biciclette.
Vi proponiamo il racconto di Mauro del nostro viaggio in moto Weekend in Toscana, accompagnato dal nostro Simone.
Giuliano Airoldi di “easymaroc” ci porta alla scoperta del Marocco e dei tour proposti da Desartica in questo fantastico Paese.
La nostra di storia inizia quando ricevo una telefonata da Marco “so che vai in Tunisia… ma è bel un giro di dune?? posso venire con il Pandino?? dici che ce la faccio?”
Un viaggio con una APRILIA TUONO nel deserto in Libia
Come nasce una balisata in pieno Murzuk in Libia, uno dei più grandi, affascinanti e temuti deserti di grandi dune.
Il Jinn sarebbe il nostro genio o folletto, oppure al Nord ci sono gli gnomi o i trolls Islandesi.
Nel mondo arabo è comunque una creatura citata nel Corano e indica un’entità soprannaturale, metà uomo e metà “anima”, spesso maligno, ma in alcuni casi può mostrarsi in maniera del tutto benevola e addirittura protettiva.
Sono i resti di un aereo italiano (un Ro.1), probabilmente partito verso la metà degli anni 20, dalla vecchia base aerea italiana di Waw El Kebir per andare a bombardare l’Oasi di Tazerbo, vecchia capitale dei Tebu, prima dell’invasione araba.
La vera storia del Conte Almasy, raccontata (male) nel Film Il Paziente Inglese
Lo scenario è il 1942, durante la Seconda Guerra Mondiale, nel mezzo delle tante battaglie tra le sabbie nordafricane tra le truppe Italo/Tedesche e quelle Inglesi, respinte fino a El Alamein, in posizione e a difesa dell’Egitto.
La regione era strategica e ottimamente difendibile, con il mare a nord e la depressione di Qattara a sud.
Non si ha la certezza del fatto che l’alto comando tedesco a Berlino avesse seriamente la volontà di conquistare l’Egitto, ritenuto probabilmente obiettivo secondario
Fatto è che però i soldati dell’Afrika Korps guidati da Rommel, aveva ottenuto dei forti successi militari con la conquista di Tobruk e la vittoria nella battaglia di Gazala.
In questo periodo gli USA non erano ancora partecipi alla ” Guerra del deserto ”
Il Generale Rommel, conosciuto come “la volpe del deserto”, nella sua avanzata che sembrava inarrestabile, studiò un piano che lo avrebbe dovuto portare alla conquista del Canale di Suez, con gli evidenti vantaggi dal controllo di una “porta” di questo calibro.
Per una operazione di questa importanza e difficoltà era però fondamentale avere delle spie al Cairo. Occhi ed orecchie indispensabili e pronte a catturare e ad inviare notizie a Rommel e furono scelti Johannes Eppler e Hans Gerd Sandstede. Spie che però non potevano certo arrivare “da turisti”
E chi meglio di Almasy avrebbe potuto aiutarlo in questa missione apparentemente impossibile?
L’esigenza era infatti quella di aggirare le truppe Inglesi che presidiavano il nord, passando dai deserti del sud. La prima ipotesi di Almasy fu quella di attraversare il deserto a sud di Siwa.
La traversata vera e propria sarebbe dovuta partire dall’Oasi di Jalo, con l’aiuto degli Italiani che occupavano la zona, utilizzando però dei mezzi catturati agli Inglesi, dei camion Ford CMP, con la motivazione che dovendosi muovere in territori occupati dal nemico, a distanza nessuno avrebbe dubitato di loro.
Le continue battaglie al fronte del nord crearono però numerose perdite di tempo e il via ufficiale all’Operazione Salam fu dato a Tripoli il 29 aprile 1942.
Raggiunta Jalo e presa la direzione est verso Siwa, incontrarono una catena, impraticabile per l’epoca, di dune non segnate sulle mappe. Si aspettavano invece di trovare terreno compatto (serir).
Malattie e problemi meccanici costrinsero il gruppo a rientrare a Jalo con l’idea di una ricognizione aerea del percorso. Un secondo tentativo, naufragato come il primo costrinsero Almasy a cambiare decisamente il suo piano.
Alleggerendo la spedizione e dimezzando mezzi e persone sarebbero andati a sud verso l’Oasi di Kufra, che era però occupata dal nemico per poi deviare a est verso il Gilf Kebir, ben conosciuto da Almásy per merito dalle sue esplorazioni di dieci anni prima, alla ricerca di Zerzura.
Si ha traccia dei dettagli dell’Operazione Salam da questo punto in poi dal diario di Almasy stesso. Lettura imperdibile, purtroppo mai tradotta integralmente in italiano.
L’esperienza e la scaltrezza di questo leggendario esploratore gli consentì di attraversare con successo il Gilf Kebir (che conosceva bene e dove aveva lasciato, fin dal 1930, acqua e carburante), e da qui verso l’oasi di Kharga per raggiungere poi la valle del Nilo ove, sul piazzale della stazione ferroviaria di Asyut si informò dell’orario dei treni in partenza, da un flemmatico poliziotto britannico. Chi prendeva il treno erano i due agenti segreti tedeschi
Per questa missione su insignito della Croce di Ferro di prima classe e promosso al grado di Maggiore dal comandante dell’Afrika Korps, Erwin Rommel.
In realtà gli Inglesi avevano scoperto la presenza di Almasy in Libia in quanto erano riusciti a decifrare il famoso “codice Enigma”, usato per le comunicazioni tra i comandi tedeschi. Ma non era inizialmente chiaro il perché!
Vista l’imminente avanzata di Rommel, i messaggi di quest’ultimo avevano la priorità nella decifrazione e nell’analisi. Ma quando si decisero era tardi, Almásy era di nuovo al sicuro a Jalo.
Per iniziare a comprendere cosa è il Silica Glass dobbiamo partire dal 1932, quando il Maggiore Patrick Clayton (successivamente uno dei fondatori del leggendario LRDG-Long Range Desert Group), un cartografo militare inglese, scoprì quest’enorme area tutta coperta di “vetro”, con una estensione di ca 200 km quadrati.
È un pezzo di deserto a circa 130 km a sud-ovest di Kufra (Libia), con delle piccole isolate alture, in mezzo a una immensa, infinita piana.
Lontana da ogni direttrice, con solo migliaia di tracce sul terreno, che vanno da una parte all’altra, come impazzite. Quelle più “nuove” sicuramente di contrabbandieri e faccendieri vari. Il confine con il Ciad non è molto lontano!
Famosa (per pochi appassionati) perché teatro di un famoso scontro tra le truppe italiane della Compagnia Sahariana di Cufra e una pattuglia del Long Range Desert Group, inglese.
Era il 31 gennaio 1941: Il fronte Nord italiano della guerra del nord-africa è crollato e il nostro esercito è in piena ritirata verso ovest in direzione di Tripoli.
Questa storia sarebbe diventata nota come l’incidente al Jebel Sherif.
E da questa storia è uscita l’imperdibile libro di Roberto Chiarvetto “Incident at Djebel Sherif” (purtroppo solo in inglese).
Per la prima volta, tutti i report disponibili e racconti sono stati raccolti e valutati. Un colloquio con un veterano NZ e l’assistenza del figlio del Maggiore Clayton del LRDG, insieme a due recenti visite, hanno permesso agli autori di disegnare le più probabili conclusioni circa la sequenza degli eventi.
Il libro fornisce non solo informazioni dettagliate su l’incidente al Jebel Sherif, ma contiene anche un drammatico resoconto del viaggio nel deserto per e da questa posizione molto remota.
Se si confrontano le foto di repertorio del libro e le nostre attuali si nota come tutto sia rimasto perfettamente uguale.
Eccezione delle due bandiere, italiana ed inglese, messe a memoria ed in onore dei caduti.
Uno dei “misteri” tra le sabbie della nostra amata Libia, sulla direttrice Tazerbo/Kufra, poco prima di Rebiana.
Quando si arriva da nord emerge dalla sabbia in lontananza.
Si narrano molte leggende su questo luogo…che si dice popolato da jiinny*…dove accadono strani fenomeni.
Sicuramente il villaggio abbandonato, le tombe sparse, la conformazione del lago e i suoi colori che vanno dal bianco al rossastro, il fumo che spesso esce dalle acque bollenti… ci portano a pensare che sono tutte vere!
Pensate che una volta a me (Eugenio) è successo di percorrere la pista sabbiosa proprio a ridosso del lago, quando da un gruppo di cespugli proprio dal mio lato, lato lago, sono apparsi un uomo e un bambino, entrambi nudi, tutti ricoperti di fango. Via radio ho commentato alla macchina dietro di me la cosa…nessuno di quelli dietro li ha visti! Sono tornato indietro per capire, nessuna traccia dei due. Poi visto l’imbrunire siamo ripartiti.
Questa è una delle tante storie tristi della Seconda Guerra Mondiale. Comunque sia sono tutte tragedie, ma alcune assumono dei connotati pazzeschi.
Il relitto in questione sono i resti di un aereo da bombardamento italiano SM79, utilizzato durante la Seconda guerra mondiale.
Di ritorno da una azione di guerra, il pilota, il Capitano Oscar Cimolini, forse a causa del ghibli o per altri motivi, aveva perso la rotta ed era stato costretto ad effettuare un tentativo di atterraggio di fortuna in quella parte del Mare di sabbia a 900 km dalla costa, atterrato probabilmente perché aveva finito il carburante.
Atterraggio peraltro perfettamente riuscito, con qualche contuso ma nessun morto.
Si stima che la radio non fosse più funzionante per colpa di possibili proiettili antiaerei sparati dalle navi nemiche e questo spiega il perché non ci sono stati SOS
Il Capitano Cimolini si avviò quindi da solo verso Nord dove avrebbe potuto incrociare una pista, che collegava Bengasi da Giarabub, mentre tre di loro (due probabilmente feriti ed un terzo che si fermò per aiutarli) si stesero all’ombra di un’ala attendendo i soccorsi.
Questa è ovviamente solo una supposizione dovuta dal fatto che, al momento della scoperta dell’aereo tre corpi mummificati perfettamente conservati dall’aria secca del deserto e con le divise intatte furono trovati sotto l’ala dell’aereo.
Il Capitano Cimolini venne invece trovato, alla base dell’ultima duna, oltre la quale passava la pista…ancora un piccolo sforzo e ce l’avrebbe fatta.
La prima domanda che viene in mente a chi si avvicina a un viaggio nel deserto è “ma mi servono le piastre da sabbia?”.
La nostra risposta è sempre la stessa: no!
Ma poi motiviamo il nostro no perché cmq i nostri sono viaggi di gruppo e un aiuto tra partecipanti e dalle assistenze è sempre pronto. Inoltre, oggi, pneumatici, potenze, tecniche di guida e compressori pronti a rigonfiare sono degli aiuti che le rendono superflue.
Ma cosa succedeva invece nelle prime grandi attraversate?
Se leggiamo “Nel Fezzan” di Corrado Zoli ( 1926) apprendiamo di una gita da Sebha verso Murzuk assieme ai Colonnelli Grazioli e Miani e racconta che “il Colonnello Miani è tutto fiero di averci mostrato alla prova una sua invenzione cui tiene molto, un sistema infallibile per valicare le sabbie con l’autocarro. Ecco di che si tratta: si utilizzano le lunghe, robuste e flessibili coste delle foglie di palmizio:(sic) colle locali trecciuoline, intessute a cordone colle foglie della palma stesa, le coste vengono fissate alle due estremità, a una distanza di sei o sette centimetri l’una dall’altra; ne risulta una lunga striscia di tappeto à Jour (corsivo) che si adagia sulla pista sabbiosa. Le ruote del pesante veicolo comprimono le coste di palma-che per la loro naturale elasticità non si spezzano-sulla superficie sabbiosa; questa, compressa tra costa e costa acquista una momentanea e sufficiente compattezza per sopportare il peso e l’autocarro sbuffando e arrancando passa: lentamente ma passa, e procede anche superando piccoli dislivelli sabbiosi, come è stato appunto necessario per raggiungere Ghudua, poiché il villaggio è costruito sulla sommità di una modestissima collinetta di sabbie mobili. Quando appena due autocarri, e quasi scarichi, sono passati, la striscia di tappeto è, bene inteso, interamente scomparsa sotto le sabbie, e un terzo autocarro che volesse subito seguir la via dei primi si arrenerebbe (sic) indubbiamente…”
Si riporta anche della costruzione di tali strisce lunghe DUECENTO METRI!
Sebbene il concetto di scelta di carriera per le donne sia un fenomeno relativamente moderno, la situazione nell’antico Egitto era piuttosto diversa. Per circa tremila anni le donne che vivevano sulle rive del Nilo godevano di una forma di uguaglianza che raramente è stata eguagliata.
Tutti noi che siamo stati nel Sahara si sono ritrovati con il naso all’insù a rimirare l’infinita distesa di stelle in cielo.
Le APP dei nostri moderni smartphone segnalandoci tutti i pianeti, le stelle, le costellazioni, ci fanno diventare moderni astronomi e inguaribili romantici, ma per un momento pensiamo come i Tuaregh e come invece chiamano loro i corpi celesti.
Avete presente quel colore rossastro che troviamo utilizzato in molte delle “pitture rupestri” che abbiamo magari visto in Libia o in Algeria (o che prossimamente vedremo)?
Bene, si tratta di OCRA.
Sappiamo bene anche che molte tribù dell’Africa nera la utilizzano come “cosmetico”.
Meno noto è invece il medesimo utilizzo da parte di tribù sahariane come invece riferisce Corrado Zoli (giornalista ed esploratore sahariano agli inizi del 900) nel suo libro “Nel Fezzan”, che ci riferisce l’uso generalizzato fino alla fine dell’800 per la protezione della pelle dal sole.
L’ocra si trova in filoni tra le rocce e la sua estrazione si fa normalmente a cielo aperto.
La percezione è di un materiale “unto”. Un volta estratto viene pulito delle parti più grosse, fatto seccare all’aria e macinato più volte fino a farlo diventare polvere. Ecco perché una volta inumidito torna ad essere cremoso.
Non ci sono particolari “motivazioni” sul fatto che veniva usato molto come colore…se non perché semplicemente era facile da reperire in natura.
Non ci sono attendibili dati sul cosa veniva usato come “legante” del colore. Ovviamente qualcosa di origine animale o vegetale…albume d’uovo? …estratti da piante?